L’adolescenza che suona. E quella che balla.
Qualche sera fa ho assistito a qualcosa di raro.
Sul palco, tre fratelli giovanissimi – i Sonic Rootz – suonavano insieme un rock-blues ruvido e viscerale, figlio degli anni ’70 americani. Bravi, intensi, sinceri.
Ma la vera magia era sotto il palco: decine di ragazzini seduti, immobili, incantati.
Per un’ora intera, nessuno scrollava uno schermo, nessuno filmava per “contenuto”.
Solo attenzione. Solo ispirazione.
Uno di quei momenti in cui capisci che qualcosa di importante sta succedendo.
Ho pensato che quei ragazzini erano fortunati.
Non perché hanno assistito a un bel concerto, ma perché hanno visto un’alternativa concreta: tre loro coetanei che non appaiono, ma suonano; che non seguono, ma creano. Hanno trovato un modello. E i modelli, in adolescenza, fanno la differenza.
Eppure, non molto tempo prima – sempre dalle nostre parti, vicino Nola – durante un’altra manifestazione pubblica, dalle casse dell’impianto rimbombava la voce di Rita De Crescenzo.
Ballata, applaudita, amplificata. E anche quello, oggi, diventa “ispirazione”.
Non è una questione moralistica: è una questione di scelta culturale.
Cosa vogliamo trasmettere? Cosa mettiamo davanti agli occhi dei più giovani?
In un’epoca in cui tutto è fruizione veloce e identità preconfezionata, far vedere che esiste anche la via dell’impegno, della bellezza ruvida, del talento coltivato è fondamentale.
Non tutti saliranno su un palco, ma tutti hanno bisogno di sapere che si può costruire qualcosa di proprio, che esistono strumenti per raccontarsi diversi dai filtri di TikTok.
E allora sì, i Sonic Rootz dovrebbero suonare ovunque.
Perché non sono solo una band promettente: sono una testimonianza viva che un’altra adolescenza è possibile.
E noi, se vogliamo davvero parlare di libertà, dobbiamo iniziare da chi offriamo come esempio.
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