di Pasquale Lettieri
Un artista-alchimista che lavora con il silenzio.
Pier Paolo Calzolari non urla. Non cerca di compiacere. Non rincorre lo spettacolo. La sua arte – fatta di sale, piombo, ghiaccio, fuoco, scrittura, pane, muffa – parla con voce bassa ma penetrante. Brucia lentamente. E resta.
Il suo è un gesto poetico e radicale: costruisce opere che non vogliono essere semplicemente viste, ma vissute. Lontano dalle mode, dai materiali nobili, dal rumore di fondo dell’arte che vuole intrattenere, Calzolari lavora con ciò che si consuma, ciò che si decompone, ciò che si scioglie o si spegne. Eppure resiste.
È in quella resistenza che nasce il senso più profondo del suo lavoro.
Un’arte che non consola. Che non decora. Ma che interroga, graffia, apre ferite invisibili.
In un’epoca in cui l’arte spesso grida, Calzolari scrive il silenzio.
La sua visione è quella di un filosofo dell’effimero.
La fiamma. Il gelo. Il pane spezzato. Ogni materiale è un frammento di tempo che passa, un corpo che vive e muore. Nulla è casuale. Nulla è minore. Tutto ha un significato che va oltre la superficie.
In fondo, Calzolari ci ricorda una cosa semplice e potente:
“In minima maxi sensus latet” – nel minimo si nasconde il senso più vasto.
Ecco perché la sua arte è libera.
E ribelle.
Perché sceglie di non urlare. Ma di resistere. In silenzio.
